Scrivere significa riscrivere Vedi altroAlbert Camus
E intanto la triste verità era che non tutti potevano essere straordinari, non tutti pote... Vedi altroJonathan Franzen, Le Correzioni
Non avrebbe saputo spiegarla, era una pena che superava il suo livello d'istruzione Vedi altroCéline, Viaggio al termine della notte
È difficile spiegare - in quel gioco delle sedie - perché alla fine si fossero fermati l... Vedi altroZadie Smith, NW
Spetta all'individuo, e al gruppo di individui, trasformare il brutto in bello Vedi altroTom Hodgkinson, La libertà come stile di vita
Ogni disordine è disordine controllato, trapunto d'intervalli riservati alla vendita di a... Vedi altroL'animale morente, Philip Roth
I suoi occhi gialli hanno lasciato una sola fessura per gettarvi le monete della notte Vedi altroOde al gatto, Pablo Neruda
“Si erano scavati una tana, dove poter leggere scrivere ed esercitarsi…”
10 Marzo 2020
Lo squalo è il punk incattivito degli oceani.
Fuck la barriera corallina! e Poseidone salva la balena! furono i primi slogan disperati di una generazione di giovani squali, che non potevano più soffrire l’irritante spensieratezza dei delfini o la vita piccolo borghese dei pesci farfalla. In loro dominava il senso dell’oltraggio, alimentato da un costante senso del rifiuto. Come vi sentireste voi, benpensanti, se l’etimo del vostro nome significasse ruvido e aspro in latino, la lingua dei padri, o addirittura nero, tenebroso e brutto in sanscrito, la lingua degli dèi? Fino ad arrivare al razzismo più becero e avvilente, con i termini germanici – guarda caso, no? – tra cui vile e cattivo? Era ora di ribellarsi, di far tremare l’acqua dei mari con pinne pettorali taglienti, occhi truccati da pazzo squilibrato, da enorme bambola assassina, da Joker dei sette mari, dotato di denti simili a cocci di bottiglia conficcati sulla vetta di un muro.
Fanculo ai pesci martello metallari, che fanno casino ma poi firmano con le major per avere più pesci; mute! orche assassine buone solo a farsi male e a fare del male senza una direzione e una strategia; good bye piovra gigante, modello giovanile, tu che eri leggenda, dove sei? Nessuno di noi ti ha mai visto? Quando avevamo bisogno di una guida, ti hanno trovato gli uomini in qualche libro di fantascienza ottocentesca, mentre noi ci siamo cavati gli occhi per cercarti negli abissi senza luce.
Ci piace il sangue? A chi non piace? Solo che noi non siamo ipocriti e lo diciamo. Siamo aggressivi? Beh pesciolini miei, così non ci scassate le pinne. Tuttavia, vostro malgrado, vi daremo fastidio comunque. Setacceremo le vostre paure e le raccoglieremo assieme alle montagne di plastica che stiamo accumulando da decenni, per rispedirvele con gli sfiatatoi delle balene da dove sono venute. E faremo tutto questo prima che la nostra ribellione diventi di moda.
E adesso aprite le orecchie, sardine! Che i vostri timpani si frantumino al grido:
Poseidon, save the whale!
Our gracious whale!
Our noble whale!
2 Gennaio 2019
Il cellulare è indolente, al pari di un fermacarte o una spilla da balia. Il suo disinteresse filosofico non si cura affatto di chi lo ha creato, per quale tra le mille ragioni possibili, meglio io Iphone o io Samsung?, ma è sostituito da un genuino interesse per ciò di cui è composto e di cui può avere un’esperienza diretta; sono solo le sue componenti hardware che più gli interessano.
Sa che ha un orecchio sopra il quale se ne appoggia un altro, una bocca che aspira le parole uscite da labbra umide, una superficie tattile disponibile a ogni carezza. Ha una memoria spaziosa e molti pensieri superflui; è alla mano e piuttosto ricercato. Ha ciò che serve, ma non tutto ciò che vorrebbe.
Cosa può mancare al più coccolato fra gli oggetti, allora?
L’odore.
Sì, proprio quello.
Basterebbe l’olezzo di una piuma d’oca, l’effluvio di un elisir gitano, o il leggero tanfo di una suoletta? Magari d’asfalto caramellato sotto il sole di luglio, o il fetore di sigarette spente in una bottiglia ormai vuota. L’esalazione di erbe aromatiche; i vapori di una tisana ai frutti di bosco, nella sua memoria c’è ancora quella ricerca: frutti-di-bosco, la sensuale rotondità di un chicco vermiglio ai piedi di un albero; o la nostalgia di quel profumo di salsedine sulle labbra tue dolcissime, salmodiata da una voce maschile attraverso l’app di una radio locale.
Per farlo sentire completo, a lui servirebbe l’odore di un cellulare, vago ma concreto, e non del cellulare, peculiare, distintivo, unico e diverso per ognuno dei suoi simili. Qualsiasi odore, pur di averne uno addosso.
È chiedere tanto?
E poi quel miraggio, pensarci crea esaltazione e sofferenze lancinanti perché impossibile da realizzare, almeno per le tecnologie odierne: possedere un profumo, sì!, un profumo, il messaggero delle cose superiori. Come in quel romanzo, letto attraverso il suo schermo lo scorso autunno. Il profumo, che fa concupire e annoda i corpi in orge sfrenate. Che giustifica l’omicidio per spruzzare estasi su per le narici degli uomini. Un profumo divorante e da divorare. Il profumo sfrenato di un cellulare.
Ma chissà… e chissà quando…
Una chimera, per lui e gli altri cellulari in giro per il mondo.
Alla fine lo sanno bene, ne fanno esperienza ogni giorno, occorre molto meno per far perdere la ragione ai loro proprietari: che la batteria si scarichi quando si aspetta un messaggino o la connessione internet sia assente quando è ormai diventato impossibile orientarsi con le stelle, o semplicemente chiedendo ai passanti.
19 Giugno 2018
La volpe ha fatto della propria difesa l’unico compromesso per uscire allo scoperto:
«È stato il gatto a circuirci! Quando il gatto parla: miagola e ti si struscia addosso; e come per i cuccioli d’uomo quando sono in fasce, è difficile resistere. Vi posso garantire che quel burattino non era fatto di legno, ma di segatura. Quanta fragilità d’animo e poca dimestichezza con la realtà: chi affiderebbe cinque monetuzze d’oro alla terra umida, che s’inghiotte anche i cadaveri e le radici delle querce?».
La volpe drizza la sua coda lunga e folta, e poi la incurva quasi chiudendola ad anello; dà le spalle all’aula come se dovesse guardare da un oblò lo spettacolo del mondo e, fulminea, si gira di scatto e appoggia il mento bianco sulla coda, accovacciandosi sulla sedia degli imputati. Rivolge i suoi occhi luminosi e aguzzi al pubblico ministero e poi prosegue:
«A me non è mai piaciuta l’uva, figuriamoci perdere del tempo per acciuffarla da un ramo. E poi, secondo la favola cosa non sarei riuscita a fare? Reagire a una sconfitta fingendo di non aver mai desiderato la vittoria? Questa è la morale? Esopo e poesie, o poca sincerità? L’unica cosa che una volpe non sa fare è mentire. Bisogna essere spietati e sadicamente onesti per sopravvivere all’inseguimento di una muta di segugi e uomini a cavalcioni su destrieri ben curati. Voi mi accusate di strage! Ma io chiamerei sul banco degli impuntati l’Inghilterra!».
Il giudice redarguisce la volpe, che dal basso lo squadra come se di fianco a sé torreggiasse un britannico a cavallo, per poi ricadere con il muso sulla coda e raccogliere così l’attenzione dei giurati:
«Io sono un’onnivora, ma con il tempo ho imparato ad apprezzare la frugalità dei funghi di montagna e dell’erba tagliata fine. Sono il primo canide che è diventato vegetariano per scelta, e difensore dei più deboli per vocazione. Io non torcerei mai una piuma a una gallina, e non entrerei in un pollaio per non sporcarmi i cuscinetti delle zampe», la volpe si alza, si stira e trema, e dagli occhi, come se avesse cercato di non offrirle al pubblico, escono pesanti lacrime di cane: «Io, egregi signori della corte, credetemi!: sono venuta al mondo per una sola ragione! Qui, tra voi: per difendere i polli dalle faine!».
Brividi arancioni scorrono sulle schiene dei presenti! Brividi sulle pareti gialle dell’aula di giustizia; sulle sedie reclinabili in legno, dove sono accovacciati familiari, giornalisti e curiosi; brividi sul banco dei testimoni; brividi di ammirazione su quello degli avvocati difensori.
«E infatti… chi potrebbe mai confondere una volpe con una faina, se non la creatura che l’ha trascinata in questo processo?».
Brividi ovunque! Nel mondo minerale, vegetale e, viste le circostanze, in quello animale.
«J’accuse il sistema inquisitorio messo in piedi dal pubblico ministero per la sua imprecisione e pochezza. J’accuse la riprovevole indifferenza delle città e dei suoi abitanti, che costringono noi naturali esseri diurni a uscire allo scoperto per cibarci dei rimasugli del McDonald’s, quando il buio è rotto solo dai lampioni e dai fari delle automobili. J’accuse chi ha preso la nostra immagine per farne dei loghi, come il motore di ricerca Firefox o la carta igienica Foxy, e non ha mai firmato neppure una petizione contro la nostra caccia nel Regno Unito. J’accuse le faine e il loro trasformismo, che ci ha rese protagoniste di un macabro show al quale non abbiamo mai partecipato: siete brave a travestirvi da volpi, faine, ma noi saremo ancora più brave a smascherarvi. E in ultimo: io accuso la signora talpa che continua a sostenere di aver visto ciò che non poteva. Che la sua onestà non sia miope come lo sono i suoi occhi!».
La signora talpa, tremante, vicina allo svenimento, non guarda esattamente nella direzione da cui proviene l’arringa. Molti sanno che è costretta a condividere la sua tana con la stessa volpe che ora la sta accusando. Non si può certo dire che siano due cuori e una capanna. Se l’era ritrovata lì, un pomeriggio, incantucciata in un angolo. La volpe non le aveva chiesto il permesso, ma si era intrufolata per restare, come se a lei fosse dovuta ogni comodità. E la talpa, sapendosi non avvezza allo scontro fisico, lì l’aveva lasciata. Ora, immaginandosi la sua coinquilina agguerrita e allo stesso tempo di una lievità sulfurea, di un fascino da frutto e da tramonto, teme che dalla sua accusa iniziale, lei, povera talpa, finisca per essere l’accusata. Perché si sa che alla bellezza di una volpe si perdona tutto; mentre lei, che non possiede affatto questa qualità, a parità di buio: preferisce quello ospitale della sua tana a quello tetro di una cella.
24 Settembre 2017
L’ombrello ha occhi arrossati e muti alla vista del cielo.
L’ombrello è un marinaio che osserva l’acqua per non farsi ingannare dal mare; un Navy SAEL in gonnella: in prima linea contro la deflagrazione delle nuvole o lo stillicidio del sole battente.
Nell’accademia degli ombrelli, l’addestramento è il più duro che si annoveri tra accessori e vettovaglie.
Settimane intere capovolti su una gamba a testa in giù, all’interno di un contenitore chiamato ‘portaombrelli’ dai superiori, gli arcigni attaccapanni, che vogliono spezzare le reni ai cadetti facendoli sentire delle mere cianfrusaglie. «E tu? Vorresti essere un ombrello? Con quel manico mingherlino? Sei un fucile mancato! Un moncherino smanicato! Un manicotto sminchiato!».
Ma il cadetto conosce il loro intento: vogliono spronarlo con offese da smargiassi per farlo crescere in temerarietà, come se dovesse affrontare una torma di monsoni in sella a una mano chiusa; lui, avvolto nel suo piumaggio sintetico da pavone, pronto con un click a scattare come il paracadute – il Geronimo dell’aria – per sfidare e contrastare l’insolenza delle piogge: «Provateci, vigliacche! Ma ricordate: dopo di me, c’è solo l’asciutto!».
L’accademia degli ombrelli è solo per un ferro che non si spezza; ma è anche opportuno che non si pieghi.
Lo afferrano come un bastone; la nuca schiacciata contro il selciato, come se fosse il vezzo da passeggio di un signorotto in bretelle. Ma l’ombrello resiste, e nei rari momenti in cui si trova da solo, coperto da un cappuccio, per temprare il suo coraggio in notte di rovesci senza luna, lubrifica le sue bacchette da ragno metallurgico, e si ripete che le folate non lo scoperchieranno.
Questa, tra i cadetti, è la vergogna più temuta: quando assieme agli altri allievi – il manico e l’asta sommersi nel fango – per giorni interi sopportano le intemperie, dispiegati come giubbotti di kevlar cercando di ammortizzare le sberle del vento. Ma appena qualcuno di loro non ce la fa, estenuato di raccogliere aria maligna che gli vortica sotto gli spicchi, questi si sollevano come gonnelle. E i superiori, per umiliarlo e temprare così la sua fermezza, iniziano con il macabro sfottò da camerata: «Venite a vedere chi abbiamo qui! Un’ombrellina! Venite a vedere com’è diventata rossa! C’è la Marylin della pioggia, il Merlino delle docce, il Mercury goccia a goccia».
E così si forgia un ombrello, in un addestramento considerato ai limiti sia dalle teglie da forno che dalle zanzariere.
Lui: l’unico scudo che non si addestra per difendere, ma solo per essere colpito.
30 Giugno 2017
Il cavallo non ha mai una posa innaturale, perché orchestra gli elementi.
Con la criniera spettina il vento per indicargli le direzioni verso le quali soffiare; e quando s’impenna, come un eroe romantico prima di cadere, lo rinsalda alla coda delle nuvole per spingerle all’orizzonte.
Il cavallo dà misura all’ampiezza della terra, con le tacche arcuate dei suoi zoccoli. Tiene al corrente l’acqua sul suo percorso, tra fonte e foce; ed eccita o calma il fuoco creando vortici di polvere che solleva dal suolo, o standogli accanto, per tenerlo accesso quanto occorre, con zaffate calde dalle sue narici, simili a bocche di draghi in fasce.
Non è mai riposante, la vita di chi dirige un’orchestra.
Come per i nostri direttori, a noi sembra facile ciò che fanno, quando muovono la bacchetta, e la sala si riempie di note legate a uno spartito. Ma a differenza dei nostri direttori, il cavallo non gode sempre del prestigio e la riverenza che meriterebbe.
Attenzione, però, a colpirlo con la frusta, con il proiettile e gli speroni, o a tirarlo per le briglie quando si ferma, il cavallo. C’è una posa che sembra non gli appartenga; l’unica, in verità, per l’animale più fotogenico che esista. Non sta mangiando, ma ha la mandibola contratta; il muso equino caduto al suolo; la coda riposta; il corpo rigido di chi ha i polmoni spenti. In quel momento, in cui appare imbalsamato, non importunate il cavallo; che sia in un recinto, nella stalla, fermo prima della partenza in gara, mentre con i paraocchi trasporta sul cemento i paganti. Non lo distraete: questo non è affatto un semplice consiglio. Durante quella stasi, il cavallo, sta immaginando come dare ritmo agli elementi, perché il mondo non precipiti per intero.
E cos’immagina, allora, in quel frangente?
Che tutto stia per nascere di nuovo, dal nulla, per poi conferirgli un movimento.