Ogni disordine è disordine controllato, trapunto d'intervalli riservati alla vendita di a...

L'animale morente, Philip Roth

Non avrebbe saputo spiegarla, era una pena che superava il suo livello d'istruzione

Céline, Viaggio al termine della notte

È difficile spiegare - in quel gioco delle sedie - perché alla fine si fossero fermati l...

Zadie Smith, NW

Scrivere significa riscrivere

Albert Camus

I suoi occhi gialli hanno lasciato una sola fessura per gettarvi le monete della notte

Ode al gatto, Pablo Neruda

Spetta all'individuo, e al gruppo di individui, trasformare il brutto in bello

Tom Hodgkinson, La libertà come stile di vita

E intanto la triste verità era che non tutti potevano essere straordinari, non tutti pote...

Jonathan Franzen, Le Correzioni

NELL’AMBASCIATA (racconto)

«Lei non ha già fatto domanda nel 2013?».
La donna continuava a fissare lo schermo del computer.
Le informazioni scambiate lungo i dodici sportelli, tra le pareti della sala sotterranea dell’ambasciata, si addensavano in un brusio cavernoso.
«Io non ho mai fatto richiesta per il visto nel 2013; se non pochi giorni fa, direttamente sul portale del vostro dipartimento di Stato».
«Capisco», rispose la donna. Cliccò due volte sul mouse, premette un tasto, strinse gli occhi per focalizzare i dati sullo schermo e disse. «..Ah!… chiarito». Poi tacque.
Avrà avuto una trentina d’anni. In carne. I capelli ricciuti, nerissimi, erano legati a coda di cavallo e le scendevano vibrando sulla schiena, a causa del refolo dell’aria condizionata, come lunghi fili calati da un tetto, eccitati dal vento e dalle vertigini. Indossava una maglietta aderente, color rame opaco, di una sfumatura più chiara della pelle mulatta. Continuava a battere sulla tastiera, come se stesse comunicando con qualcuno in tempo reale. E l’idea che quel qualcuno potesse trovarsi all’interno dell’ambasciata, magari in una stanza a un livello inferiore rispetto a dove si trovavano, lo inquietò. L’edificio, per quanto ne sapesse, poteva assomigliare a una piramide nascosta, di cui solo un blocco e la bandiera piantata sul vertice erano visibili dal cielo; o dal marciapiede in via M**, di fronte alla fermata dei tram. Si convinse dell’improbabilità che la donna stesse comunicando con qualcuno, perché lei continuava a martoriare i tasti, anche quando lui taceva; non stava quindi trasmettendo le sue risposte. Dell’ansia che stava provando, invece, non si preoccupò: tutti i richiedenti, in quella sala illuminata da lunghe lampade al neon, erano lievemente febbricitanti, quasi fossero a un appello d’esame. Di là dal vetro, un occhio di luce guardava la donna dall’alto; l’ampiezza del cono era misurata per illuminare lei, il computer e la scrivania, nulla di più. Lo sfondo era riempito dal buio, interrotto da due strisce parallele di luci bluastre, poco distanti tra loro, che si perdevano in profondità, fino a raggiungere quella che da lontano sembrava l’entrata di un camino, visibile grazie al colore freddo degli ultimi faretti.

[…]

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