Scrivere significa riscrivere

Albert Camus

E intanto la triste verità era che non tutti potevano essere straordinari, non tutti pote...

Jonathan Franzen, Le Correzioni

Spetta all'individuo, e al gruppo di individui, trasformare il brutto in bello

Tom Hodgkinson, La libertà come stile di vita

Ogni disordine è disordine controllato, trapunto d'intervalli riservati alla vendita di a...

L'animale morente, Philip Roth

È difficile spiegare - in quel gioco delle sedie - perché alla fine si fossero fermati l...

Zadie Smith, NW

Non avrebbe saputo spiegarla, era una pena che superava il suo livello d'istruzione

Céline, Viaggio al termine della notte

I suoi occhi gialli hanno lasciato una sola fessura per gettarvi le monete della notte

Ode al gatto, Pablo Neruda

30 Novembre 2017

Marco

 

Marco spalanca gli occhi.

Lo stesso incubo. Ormai da mesi.

Siede ai bordi del letto, prende una sigaretta e l’accende. La porta finestra è aperta. Entra un refolo d’aria, quel tanto che basta da sbaragliare il moto ondulatorio e verticale del fumo per disperderlo.

L’ossatura centrale dell’incubo è sempre la stessa. Cambiano solo alcuni dettagli. I colori sono vivi, le voci anche. Le sensazioni fisiche sono acuite; una tempesta elettrica nel cervello che di solito la veglia riduce a una continua e intensa precipitazione.

Gli portano via i figli.

Le loro facce e i loro corpi, che ha vestito e tenuto sulle spalle, di cui conosce peso e misura; e che stavano nei palmi, poi tra le braccia, sulle spalle, e ora corrono, saltano, fanno capriole che a lui non riescono più.

Nell’incubo sono limpidi come nella realtà. Ci sono la carne, le ossa, i capelli castani del primo, quelli arruffati e corvini del secondo.

Ci sono i polsi. A lui sembra di stringerli, di tirarli a sé, come se afferrasse le corde di vele spiegate. Ma non possono nulla: la contrazione dei muscoli, la disperazione, l’invincibile forza di un padre.

Tutto Inutile.

Gli altri sono irriconoscibili, invece. Sagome sfumate che si aggregano. Poco più alte di lui. Marco scalcia, sbava e urla, mentre loro li portano via, senza però averne avvinghiate le spalle, le braccia o i polsi. La loro forza gravitazionale è la massa annacquata che si espande: l’indifferenza predatoria di un buco nero. Li trascinano senza toccarli. E lui spalanca gli occhi. Il cuore che sfracella in ogni arteria, vena, capillare. Una catena ripetuta di esplosioni.

Un martirio. Nel nome santo dell’incertezza.

Il catering. Lo hanno chiamato poche volte negli ultimi due mesi. Deve darsi una mossa. Ci sono anche le consegne in pizzeria: dovrebbero fargli sapere tra una settimana. Ci sarebbe la possibilità sia a pranzo che a cena. Salterebbero fuori una quarantina di euro al giorno. Non si fa tutto, certo, ma si fa molto con quella cifra. E il minestraio, gestito da uno che viene dal suo paese. Se alla fine di alcune preghiere masticate lo assume, dovrebbe occuparsi della cassa. Ma ha paura che l’attività non andrà avanti. Il proprietario non ha cura delle vetrine, i depliant sono ancora quelli della gestione precedente, con piatti che non vengono più serviti. Inoltre non lo pubblicizza; né i volantini, né una pagina su Facebook, né un sorriso quando entra un cliente.

Come può pretendere di andare avanti?

Prima le cose andavano bene. Marco, però, voleva crescere i figli da un’altra parte. S’immaginava meno storie, meno schifezze, meno caos, meno imposizioni, più possibilità. Una vita tranquilla, così pensava.

Tra poco arriva l’estate. I genitori di sua moglie porteranno i nipoti al mare. In loro assenza hanno buttato giù un piano. Marco cercherà in tutti i ristoranti, anche in quelli di provincia. Lei farà lo stesso. O forse gli anni di ragioneria l’aiuteranno. Una piccola azienda a gestione familiare, un ufficio senza troppe pretese, una cassa al supermercato. Difficile, senza dubbio. Quasi nessuna esperienza. Non ricorda più neppure la teoria. Ma perché non tentare.

Un imprevisto.

Un piacevole imprevisto.

Ecco cosa sarebbe ottenere un posto da impiegata.

Prima di trasferirsi, Marco si era creato un lavoro nella nuova città. Sembrava sicuro, una certezza. O forse sono stato io a volermi convincere. Ma poi è fallito. C’avevo investito anche dei soldi, parte dei risparmi. Una piccola impresa; sempre nella ristorazione, il suo campo.

Ma perché non ha funzionato?

Io le vetrine le ho sempre pulite. Sorrido perché sono contento. I buoni commenti sulla bocca di tutti erano la mia pubblicità migliore.

Adesso è inutile cercare di riaddormentarsi.

Finita la sigaretta, si metterà al computer per ricavare una giornata, o magari un weekend intero per qualche azienda di catering che sta cercando. Poi continuerà ad andare in giro per la città, in anticipo, sul piano che ha buttato giù con la moglie.

Come aveva sentito dire in quella trasmissione, un mese prima?

I sogni non sono mai premonizioni, ma cose già avvenute nella testa.

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