I suoi occhi gialli hanno lasciato una sola fessura per gettarvi le monete della notte

Ode al gatto, Pablo Neruda

Ogni disordine è disordine controllato, trapunto d'intervalli riservati alla vendita di a...

L'animale morente, Philip Roth

È difficile spiegare - in quel gioco delle sedie - perché alla fine si fossero fermati l...

Zadie Smith, NW

Scrivere significa riscrivere

Albert Camus

Spetta all'individuo, e al gruppo di individui, trasformare il brutto in bello

Tom Hodgkinson, La libertà come stile di vita

E intanto la triste verità era che non tutti potevano essere straordinari, non tutti pote...

Jonathan Franzen, Le Correzioni

Non avrebbe saputo spiegarla, era una pena che superava il suo livello d'istruzione

Céline, Viaggio al termine della notte

28 Gennaio 2020

I promessi sposi?

 

Nomen omen. Il nome è un presagio.

Preferisco questa traduzione a quella più comune e conosciuta: un nome un destino. Destino è una parola enfatica, tronfia, che deresponsabilizza; mentre presagio è più a misura d’uomo, qualcosa su cui non si può avere pieno controllo, ma che bisbiglia un possibile margine d’influenza sul nostro futuro. E sebbene abbia una connotazione negativa, il presagio ci avverte: è la premura di Cassandra, a noi la libertà di ascoltarla o farla tacere.

I nostri nomi sono un segno d’individuazione. Hanno un’importanza oggettiva nel rapporto con gli altri e con noi stessi. Non sorprende come molte dittature abbiano cambiato e marginalizzato i nomi propri delle persone a loro sottomesse. Un Nome, pronunciato nel momento giusto, ha una tale forza evocativa da poter instillare il germe della rivoluzione anche nei cuori più stanchi. Immaginate se ne fossimo sprovvisti, se ci chiamassimo tutti in modo eguale, se solo un numero ci differenziasse: come nel regime cambogiano di Pol Pot, dove gli appartenenti al partito comunista dei Khmer rossi si facevano chiamare Fratello numero 1, Fratello numero 2, Fratello numero 3, e così via, in un mare di spersonalizzazione color rame.

Il nostro nome potrebbe essere usato come titolo per le nostre vite, e questo ci porta al titolo di un libro, alla nostra biografia, e più in generale ai titoli dei libri.

Quale importanza rivestono e come dovrebbero essere scelti?

Ne stavo parlando la settimana scorsa con un amico. Secondo lui i titoli dei libri “servono” e non devono “aiutare” per forza. Servono a invogliare una persona a prendere un libro in mano per sfogliarlo, e non devono aiutarlo a capire il riassunto costipato della storia che forse (compreremo) leggeremo, perché è buona creanza fare così. Il titolo dovrebbe essere un abile consiglio per gli acquisti. Deve incuriosire, attrarre, far sorgere una domanda e accendere la scintilla di un’emozione. Il titolo è parte integrante del prodotto (argh!): la foto su Instagram ritoccata abilmente con photoshop. Sono d’accordo – immagino che un editore lo sarebbe – ma senza che diventi l’unica scelta possibile.

Abbiamo iniziato a prendere in esame alcuni titoli di libri che abbiamo letto entrambi. Io stavo per finire Le Correzioni di Jonathan Franzen. Abbiamo convenuto che dal punto di vista pubblicitario il titolo fosse scadente; aveva a che fare con la polpa di cui era composta la trama, ma senza essere né specifico né affilato, benché il libro in sé si avvicini a un capolavoro di stile.

I promessi sposi, ad esempio, è un titolo che non serve, ma che aiuta a fare uno schizzo su chi siano i protagonisti principali, stessa cosa vale per I fratelli Karamazov. Mentre Pastorale americana di Philip Roth (malgrado solo un americano possa valutarne veramente l’efficacia), non serve, in base alle indicazioni del mio amico, e non aiuta, secondo le indicazioni generali.

Il valore indiscutibile di questi libri ci dice quanto il titolo non sia così fondamentale rispetto al contenuto che racchiude. Stiamo parlando di scrittori con cui si vince a mani basse: regalano una nuova esperienza, una profondità, il senso del compiuto, del compiuto a dovere.

Mi chiedo se dietro a un titolo incisivo si possa nascondere una storia scialba, scritta male.

E i titoli che servono come buone esche, invece? Mi vengono in mente L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera (che alcuni potrebbero trovare troppo pretenzioso, ma mai come La condizione umana di Malraux, libro di grande formazione per chiunque voglia scrivere) e Musica per organi caldi di Bukowski (titolo originale: Hot water music), benché quest’ultima sia una raccolta di racconti, tra cui ve ne sono di buoni e di scadenti.

Su Diario di una ninfomane, il mio amico esulterebbe: serve, aiuta e visto l’argomento di forte tradizione consumistica, è difficile che nessuno dia una sbirciata di soppiatto alle sue pagine. Anche Uomini che odiano le donne, perché sia nel suo servire sia nel suo aiutare è lapidario, richiama in maniera violenta la piaga del femminicidio e ha la stessa forma acuminata della lama di uno psicopatico. Il titolo del libro di Stieg Larsson svetta su quelli sciapi e animaleschi di Jo Nesbo: Il pipistrello, Scarafaggi, Il pettirosso e Il leopardo, sebbene entrambi gli scrittori abbiano venduto milioni di copie e siano considerati tra i maggiori rappresentati contemporanei del romanzo poliziesco.

Ignoro se nelle scuole di scrittura ci sia un corso specifico sulla scelta del titolo da dare a un libro, vista l’importanza che riveste nella scelta di cosa leggere per molti lettori. Oltre alle proprie produzioni in classe, l’insegnante potrebbe invitare gli studenti a rititolare un’opera conosciuta. «Bene, Manzoni ha un vuoto di memoria. Non si ricorda il nome del romanzo che lo ha consacrato nell’invidiabile piano didattico delle scuole italiane. Voi avete sempre pensato che “I promessi sposi” sia un titolo debole, quasi sciocco, e adesso avete l’occasione per suggerirne uno nuovo ad Alessandro. Scordatevi Fermo e Lucia. Avete dieci minuti».

Penso che siamo tutti d’accordo nel dire che il titolo è il nome del libro. Infatti, spesso noi chiediamo: come si chiama l’ultimo libro che hai letto?

Forse, nel campo della letteratura, dovremmo dare più credito alle locuzioni dei latini, sopratutto nel campo dell’onomastica. Nello scegliere il nome di un libro dovremmo concentrarci sulla necessità di un presagio, farne la nostra regola aurea. Senza che sia didascalico e innocuo.

Deve essere un titolo che faccia presagire il meglio. Ciò che ognuno di noi cerca.

Rispetto ai promessi sposi, cosa ne pensate de L’amore ai tempi della peste? Già visto, dite? Un plagio camuffato male? Sono d’accordo.

E La provvidenza ti chiamerà per nome?

In tutta onestà, a me non dispiace.

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