Un quadro a piacere

Il gioco
Era difficile rimanere seri. Nonostante avessero fatto quel gioco milioni di volte; più di tutti i resti che suo padre aveva dato agli abitanti della valle o al numero delle gocce di benzina cadute a terra in quindici anni di lavoro, Martina non riusciva a trattenersi. Nascosta nell’angolo del sontuoso gabbiotto, grande quasi come una camera singola, quando il padre, alzando la testa dalla ciotola in cui fingeva di lavarsi le mani, si chiedeva ad alta voce: “Ma dove sarà finita mia figlia?”; lei, vinta ancora prima di accettare la sfida, scoppiava in un grido di euforia che si perdeva tra gli alberi del bosco. Lui allora si voltava verso quel labirinto di tronchi e di animali notturni in cerca di un riparo, e si chiedeva a voce ancora più alta: “Sarà stato un orso?”. Fintamente impaurito e superbamente calato nella sua parte, superava la pompa numero 1, dando una leggera manata sul ferro rosso, per poi gettarsi verso il gabbiotto, quasi urlando: “Un fucile! Mi ci vuole un fucile!”. Lei, a quel punto, inebriata dall’idea di essere scoperta, urlava, sputacchiando dei versi incomprensibili che si esaurivano in un sibilo isterico e in uno squittio finale. E tutto si ripeteva con la medesima intensità, fino a quando il pulmino della scuola non la passava a prendere per portarla via dall’attore più esilarante che avrebbe mai incontrato in tutta la sua vita. E che non odorava mai di benzina, preferiva gli orsi alle macchine e aveva sempre le mani umide e pulite.
Francesco Montori