I suoi occhi gialli hanno lasciato una sola fessura per gettarvi le monete della notte Vedi altroOde al gatto, Pablo Neruda
È difficile spiegare - in quel gioco delle sedie - perché alla fine si fossero fermati l... Vedi altroZadie Smith, NW
Ogni disordine è disordine controllato, trapunto d'intervalli riservati alla vendita di a... Vedi altroL'animale morente, Philip Roth
Non avrebbe saputo spiegarla, era una pena che superava il suo livello d'istruzione Vedi altroCéline, Viaggio al termine della notte
Scrivere significa riscrivere Vedi altroAlbert Camus
E intanto la triste verità era che non tutti potevano essere straordinari, non tutti pote... Vedi altroJonathan Franzen, Le Correzioni
Spetta all'individuo, e al gruppo di individui, trasformare il brutto in bello Vedi altroTom Hodgkinson, La libertà come stile di vita
“Si erano scavati una tana, dove poter leggere scrivere ed esercitarsi…”
27 Maggio 2020
Un’immagine vale più di 1000 parole? Sì, se una persona non è capace di esprimersi o di capirle. Delitto di lesa maestà verso quella fetta di popolazione che viene ingiustamente descritta come analfabeta funzionale? No, almeno non da parte mia. Sua maestà è la gentilezza, il resto è decoro, etichetta e diademi di dubbio gusto. C’è poco da ridere o da lamentarsi – una noia mortale, insomma -, ma nulla di cui essere meravigliati. Nella nostra società convergono diverse “crazie”, una di queste è il sigillo odierno che le racchiude: l’iconocrazia, il potere dell’immagine. Con il collettivo Dogon, attraverso il racconto orale avevamo cercato di mettere in risalto le parole in quanto tali: un suono con senso e significato, che tintinna nella bocca di qualcuno e brinda nelle orecchie di che le ascolta.
Ok, mi dicono di parlare come mangio. Da qui in poi lo farò. Sono un divoratore di cioccolata al latte con nocciole, quindi userò parole zuccherate, parole mammellari e fruttuose, ricche di vitamine E. La domanda è semplice: capisci o no? Un’immagine è diretta, non richiede chissà quale sforzo di comprensione. Ergo, se t’inietti immagini su uno schermo dalla mattina alla sera, l’espressione da ebete che si svilupperà orizzontalmente sul tuo viso non sarà causata solo dall’estrema botta momentanea, ma anche dai danni neuronali irreversibili. Sei passivo e appassisci, in tutti i sensi.
Giochetto da fare insieme, ora. Alza lo sguardo e fissa quello che hai davanti agli occhi. Pronto? Bene. Adesso prova a immaginare quello che stai fissando. Ci riesci? Io credo di no. Perché? Perché il cervello va in tilt, non può sdoppiare uno stimolo che proviene dallo stesso senso. L’immagine è coercitiva, è “bullica” (questa parola mi è venuta così e la lascio, mi scuserete). Un’immagine è il fondo schiena di un ippopotamo che ti chiede di insaponargli le natiche perché lui non ci arriva, mentre fate il bagnetto insieme nella vasca. L’immagine è diretta e insopprimibile: per quanto assurda, appacificante e piacevole possa essere. Ti dice “guardami”, perché è la tua vista a essere sua maestà.
Ok, ora facciamo un altro giochetto. Immagina di essere in piedi su una passerella di legno in riva a un lago -sulla sponda opposta inizia un bosco di betulle – il sole sta calando, non è visibile al tuo sguardo: è un anello stretto al dito dell’orizzonte – il lago in superficie è un giacimento aurifero, ma è solo grazie al riflesso dei colori caldi e appannati del tramonto – l’atmosfera è tiepida – il vento è leggero e carezzevole – ti volti, con l’aria trasognata – e davanti a te c’è il solenne fondo schiena di un ippopotamo che inizi a grattare perché poverino lui non ci arriva – in tutto questo indossi una mascherina, ovviamente, ma non per contrastare il Corona virus.
Ecco, se hai capito il breve testo e sei riuscito a immaginarne gli elementi che lo compongono (a parte le betulle, quelle vigliacche), hai di nuovo fatto esperienza di cosa sia la lettura e il racconto orale.
“Dacci una sola differenza con le immagini!”, mi chiede un gruppetto di analfabeti funzionali lì dabbasso. Certo! Aprite la cambusa perché adesso arriva il cibo. Affinano la nostra immaginazione e il nostro potere creativo, e quindi la facoltà di unire i tasselli, di risolvere problemi sempre più complessi, di rinnovare le nostre giornate e di innovare quelle degli altri; nei giorni buoni potreste anche diventare il punto d’incontro delle energie che danzano nell’universo (esagerato? “melius est abundare quam deficere”).
La lettura e il racconto orale non hanno cornici, e quindi confini; la nostra mente va sempre al di là di ciò che legge e ascolta. È un atto d’amore condiviso, coinvolgente. Diventi tu stesso co-autore di chi ha scritto quelle parole o ha dato loro espressività attorno a un fuoco, davanti a una birra, o su un palco; anzi, tu completi la loro opera, in qualche modo la espandi. Un racconto non ti chiede mai di fermarti al punto. … … …
Secondo me ne vale la pena, no?
28 Gennaio 2020
Nomen omen. Il nome è un presagio.
Preferisco questa traduzione a quella più comune e conosciuta: un nome un destino. Destino è una parola enfatica, tronfia, che deresponsabilizza; mentre presagio è più a misura d’uomo, qualcosa su cui non si può avere pieno controllo, ma che bisbiglia un possibile margine d’influenza sul nostro futuro. E sebbene abbia una connotazione negativa, il presagio ci avverte: è la premura di Cassandra, a noi la libertà di ascoltarla o farla tacere.
I nostri nomi sono un segno d’individuazione. Hanno un’importanza oggettiva nel rapporto con gli altri e con noi stessi. Non sorprende come molte dittature abbiano cambiato e marginalizzato i nomi propri delle persone a loro sottomesse. Un Nome, pronunciato nel momento giusto, ha una tale forza evocativa da poter instillare il germe della rivoluzione anche nei cuori più stanchi. Immaginate se ne fossimo sprovvisti, se ci chiamassimo tutti in modo eguale, se solo un numero ci differenziasse: come nel regime cambogiano di Pol Pot, dove gli appartenenti al partito comunista dei Khmer rossi si facevano chiamare Fratello numero 1, Fratello numero 2, Fratello numero 3, e così via, in un mare di spersonalizzazione color rame.
Il nostro nome potrebbe essere usato come titolo per le nostre vite, e questo ci porta al titolo di un libro, alla nostra biografia, e più in generale ai titoli dei libri.
Quale importanza rivestono e come dovrebbero essere scelti?
Ne stavo parlando la settimana scorsa con un amico. Secondo lui i titoli dei libri “servono” e non devono “aiutare” per forza. Servono a invogliare una persona a prendere un libro in mano per sfogliarlo, e non devono aiutarlo a capire il riassunto costipato della storia che forse (compreremo) leggeremo, perché è buona creanza fare così. Il titolo dovrebbe essere un abile consiglio per gli acquisti. Deve incuriosire, attrarre, far sorgere una domanda e accendere la scintilla di un’emozione. Il titolo è parte integrante del prodotto (argh!): la foto su Instagram ritoccata abilmente con photoshop. Sono d’accordo – immagino che un editore lo sarebbe – ma senza che diventi l’unica scelta possibile.
Abbiamo iniziato a prendere in esame alcuni titoli di libri che abbiamo letto entrambi. Io stavo per finire Le Correzioni di Jonathan Franzen. Abbiamo convenuto che dal punto di vista pubblicitario il titolo fosse scadente; aveva a che fare con la polpa di cui era composta la trama, ma senza essere né specifico né affilato, benché il libro in sé si avvicini a un capolavoro di stile.
I promessi sposi, ad esempio, è un titolo che non serve, ma che aiuta a fare uno schizzo su chi siano i protagonisti principali, stessa cosa vale per I fratelli Karamazov. Mentre Pastorale americana di Philip Roth (malgrado solo un americano possa valutarne veramente l’efficacia), non serve, in base alle indicazioni del mio amico, e non aiuta, secondo le indicazioni generali.
Il valore indiscutibile di questi libri ci dice quanto il titolo non sia così fondamentale rispetto al contenuto che racchiude. Stiamo parlando di scrittori con cui si vince a mani basse: regalano una nuova esperienza, una profondità, il senso del compiuto, del compiuto a dovere.
Mi chiedo se dietro a un titolo incisivo si possa nascondere una storia scialba, scritta male.
E i titoli che servono come buone esche, invece? Mi vengono in mente L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera (che alcuni potrebbero trovare troppo pretenzioso, ma mai come La condizione umana di Malraux, libro di grande formazione per chiunque voglia scrivere) e Musica per organi caldi di Bukowski (titolo originale: Hot water music), benché quest’ultima sia una raccolta di racconti, tra cui ve ne sono di buoni e di scadenti.
Su Diario di una ninfomane, il mio amico esulterebbe: serve, aiuta e visto l’argomento di forte tradizione consumistica, è difficile che nessuno dia una sbirciata di soppiatto alle sue pagine. Anche Uomini che odiano le donne, perché sia nel suo servire sia nel suo aiutare è lapidario, richiama in maniera violenta la piaga del femminicidio e ha la stessa forma acuminata della lama di uno psicopatico. Il titolo del libro di Stieg Larsson svetta su quelli sciapi e animaleschi di Jo Nesbo: Il pipistrello, Scarafaggi, Il pettirosso e Il leopardo, sebbene entrambi gli scrittori abbiano venduto milioni di copie e siano considerati tra i maggiori rappresentati contemporanei del romanzo poliziesco.
Ignoro se nelle scuole di scrittura ci sia un corso specifico sulla scelta del titolo da dare a un libro, vista l’importanza che riveste nella scelta di cosa leggere per molti lettori. Oltre alle proprie produzioni in classe, l’insegnante potrebbe invitare gli studenti a rititolare un’opera conosciuta. «Bene, Manzoni ha un vuoto di memoria. Non si ricorda il nome del romanzo che lo ha consacrato nell’invidiabile piano didattico delle scuole italiane. Voi avete sempre pensato che “I promessi sposi” sia un titolo debole, quasi sciocco, e adesso avete l’occasione per suggerirne uno nuovo ad Alessandro. Scordatevi Fermo e Lucia. Avete dieci minuti».
Penso che siamo tutti d’accordo nel dire che il titolo è il nome del libro. Infatti, spesso noi chiediamo: come si chiama l’ultimo libro che hai letto?
Forse, nel campo della letteratura, dovremmo dare più credito alle locuzioni dei latini, sopratutto nel campo dell’onomastica. Nello scegliere il nome di un libro dovremmo concentrarci sulla necessità di un presagio, farne la nostra regola aurea. Senza che sia didascalico e innocuo.
Deve essere un titolo che faccia presagire il meglio. Ciò che ognuno di noi cerca.
Rispetto ai promessi sposi, cosa ne pensate de L’amore ai tempi della peste? Già visto, dite? Un plagio camuffato male? Sono d’accordo.
E La provvidenza ti chiamerà per nome?
In tutta onestà, a me non dispiace.
27 Settembre 2018
Cerco di svegliarmi presto la mattina, verso le cinque e mezza. Quelle prime ore, che s’interrompono alle nove quando esco da casa per andare a lavoro, seguono un ordine prestabilito, un palinsesto cui mi attengo, essendone il creatore e l’esecutore. La scaletta è la seguente: ginnastica, colazione, meditazione, scrittura e riflessione. Cerco di mantenere teso un filo, legato attorno alle abitudini che voglio rinsaldare.
L’altro giorno stavo facendo colazione davanti alla vetrata del salotto. Il sole stava cominciando a stendersi sulle case, i palazzi, gli alberi e i giardini condominiali. Mi sono alzato per mettere nel lavello la tazza vuota, e per un geometrico gioco di specchi, immagino, perché il sole non tocca le mura esterne del mio appartamento, i miei occhi sono stati colpiti, per una frazione di secondo, da un raggio rimbalzato da chissà quale finestra.
In alcune leggende popolari, ogni ora della nostra vita, appena morta, s’incarna e si cela in qualche oggetto materiale.
Così ricorda Proust, l’unico scrittore al mondo che abbia provato a trasformare il tempo in archeologia letteraria.
L’altro giorno, l’oggetto in cui erano intrappolati un ricordo e la sensazione emotiva legata a esso ha preso le sembianze di quel raggio. In quel momento si è sprigionato in me il ricordo di un cielo terso e abbacinante e un sole pieno e imponente; era il sole della California, dove, tuttavia, non sono mai stato. Ho impiegato alcuni attimi per capire che la gioia riesumata di quella luce e di quel luogo apparteneva a un ragazzino di 12 anni, seduto sul divano, mentre guardava in continuazione, grazie a una cassetta VHS e un registratore grande quanto un forno a legna, il film d’azione Point Break. Lo avete mai visto? I rapinatori surfisti di Los Angeles, il giovane infiltrato dell’FBI Johnny Utah, la sua crescente ammirazione per Bodhi, il capo della banda, un perfetto Patrick Swayze, e il loro inevitabile scontro alla fine della pellicola su una spiaggia australiana durante la tempesta del cinquantennio. Una trama appassionante, accompagnata dalle immagini dell’Oceano Pacifico alla ricerca dell’onda perfetta, dalle spiagge e dai falò notturni, dai lanci con il paracadute per estasiarsi di adrenalina e dall’onnipresenza del sole estivo californiano, l’imperatore, la divinità, il sol invictus. Per quanto possa sembrare impoetico il ricordo che quel raggio ha fatto emergere – un film hollywoodiano degli anni ‘90 -, lo stimolo all’avventura, la partecipazione al dramma e l’invidiabile senso di spensieratezza di un ragazzino imberbe sono stati d’animo intensi, vicini all’epica e alla poesia.
La resurrezione, come tutte le resurrezioni, è dovuta a un semplice caso.
Se io non mi fossi alzato in piedi per riporre la tazza nel lavello e qualche dirimpettaio non avesse chiuso o aperto la finestra, non avrei avuto modo di riassaporare in me quello che provavo in quegli interminabili pomeriggi sul divano. Gli oggetti di cui parla Proust, questi sì rivestiti di un potere talismanico, sono sparsi ovunque e in luoghi designati, sono una speciale infrazione al codice del presente, e come l’acqua sono un semplice e arcano mezzo di conduzione.
Se vivessimo il diluirsi del tempo senza parcellizzarlo, come se fosse lo specchio di un lago e non la corrente di un fiume, e se la nostra ricerca di un senso fosse meno museale e più affine, invece, a un’analogia immediata, che leghi alla forma la sua sostanza, chissà quanti di questi oggetti animati da ricordo ed emozioni ci farebbero rivivere il frammento di un passato che custodiscono. Non sempre rimuoviamo i traumi, ma spesso anche la gioia, l’estasi, e i momenti di assoluto conforto con la vita che si svolge attorno a noi e quella che germoglia nel nostro intimo. La nostra natura recide il troppo, e non fa distinzione tra poli opposti.
È successo che alcuni di questi incontri risvegliassero in me il ricordo di sogni passati. Non sto parlando della notte precedente o di quella prima, quando, sempre per puro caso – una parola, un pensiero, un colore – il giorno seguente ci torna alla memoria ciò che abbiamo lasciato affondare nel sonno e di cui non ricordiamo più nulla al nostro risveglio; nell’incontro con l’oggetto, con quel meccanismo temporale, riemergono sogni fatti mesi prima, addirittura anni, sebbene non collocabili con esattezza. Mi è capitato sull’autobus, una settimana fa, nell’esatto momento in cui si è fermato di fianco a un cartellone pubblicitario, al semaforo. Ed ecco che il ricordo di un edificio altissimo, che sprigionava un’ombra obliqua sul terreno, mi ha occupato la vista. Io sapevo di doverci entrare, e che la trama interna alle sue mura sarebbe stata simile a quella nascosta all’interno del mio corpo. Provai la stessa sensazione d’inquietudine, di fascinazione e di senso del dovere, grazie a una circostanza fortuita e a un cartellone pubblicitario, dove una bella ragazza promuoveva corsi di lingua per stranieri a una sola fermata dall’ufficio.
Il nostro cervello immagazzina sia i ricordi reali (o quelli fittizi), sia i sogni che facciamo durante la fase REM. Immaginate solo per un istante, se i primi fossero scalzati completamente dai secondi, dove i ricordi combacerebbero con le nostre produzioni oniriche. Ogni rimando al passato sarebbe una deviazione dell’inconscio. Ricordo e realtà non coinciderebbero mai, neppure per approssimazione; la mano sul fuoco continua a bruciare, mentre il nostro cervello ci assicura che afferrandolo acquisteremo il potere di Vulcano: lo abbiamo sognato la notte prima. Se fossimo fatti così, potremmo descriverla come una schizofrenia fisiologicamente sana; dovremmo però ignorare i sinistri risvolti di questa chimera: la storia sarebbe un guazzabuglio di visioni, il breve resoconto di una mitologia dell’estinzione.
I cinici assicurano che sia già così.
Ma è il continuo e genuino stupore nello scoprire come siamo fatti che trasforma l’incontro con gli oggetti in una domanda e un’affermazione. La seconda è che noi, senza rendercene conto, siamo i custodi di un tutt’uno che persiste più di quanto immaginiamo; mentre la prima, come conseguenza, è chiedersi cosa questo significhi veramente.
Quali sono i vostri oggetti? Le chiavi di un tempo e di sogni passati? Vi siete mai imbattuti in uno di essi? Non succede spesso, quasi mai, e bisognerebbe tenerne traccia.
Il corpo intriso di elettricità e di sostanze chimiche e la coscienza, con il suo potere di attenzione e produzione, sedimentano come strati geologici: nulla scompare ma ogni cosa viene ricoperta. Non c’è analogia con la terra più forte di questa.
6 Aprile 2018
Che cos’è l’età?
È la somma delle rivoluzioni terrestri attorno al sole, che come i gettoni di un abaco segna l’aritmetica del tempo trascorso.
Se vivessimo molto più a lungo, misurare la lunghezza delle nostre vite con le ellittiche della Terra attorno al Sole sarebbe inutile, come se scomodassimo gli anni per indicare l’età di un moscerino.
Se mai arrivassimo alla soglia dell’immortalità, sarebbe meglio avere un’unità di misura diversa, come il moto del sistema solare attorno al centro della Via Lattea: più di 200 milioni di anni per completare un ciclo intero. La nostra adolescenza si accompagnerebbe con lo spegnersi e l’accendersi delle stelle. Mi chiedo se l’espressione “un giorno capirai” avrebbe ancora lo stesso significato?
L’età indica un periodo storico, descritto con il minerale o la lega che lo ha forgiato: dalla pietra al bronzo, dal rame al ferro; l’età appartiene al mito, a quella leggenda aurea che precede le altre di natura più gretta, l’antichissima età dell’oro, così simile a quel frammento emotivo di cui non ricordiamo quasi nulla e che difendiamo chiamandolo “età dell’innocenza”, per separarla nettamente dalla snervante età adulta.
La Storia ha un’età. E la nostra collettiva condizione psicologica, la nostra comune nostalgia anche.
Secondo voi è più semplice scoprire chi ha maturato l’età della ragione o chi ha raggiunto la maggiore età? I due stati possono coesistere, non coesistere, o non esistere affatto.
Quando il nostro compleanno succede, e fino a una certa soglia sei un anno più grande e dopo quella soglia un anno più vecchio.
Ogni volta che non si deve chiedere l’età a una signora, perché la bellezza sfiorisce col tempo, ed è come se le chiedessi di valutare con sincerità l’immagine del suo corpo. Domanda indelicata, che ha bisogno di persone delicate per poterla fare.
Quando a vent’anni ti eri ripromesso che saresti diventato ricco, o usando un cipiglio aristocratico saresti diventato “facoltoso”, un qualcuno per gli altri, un qualcuno per te stesso, ma non è finita così. E siccome hai interpretato la vita come un gioco a somma zero, ti chiedi chi abbia controbilanciato la tua sconfitta con una vittoria.
Un mio amico non si è presentato alla sua stessa festa di compleanno. Si era ripromesso ben altro raggiunta una certa età. Non c’era nulla da festeggiare; e darsi alla macchia, quando la tavola era già imbandita e gli invitati presenti, è stata una delle assenze più meste cui abbia mai assistito. Ci si può sentire spacciati a trent’anni, e trovarlo tanto doloroso quanto normale.
L’età come una limitata serie di traguardi. Che se non raggiunti gettano sulla proverbiale candelina in più sulla torta, sulla notifica del profilo che oggi-tocca proprio-a-te, quel colore incolore chiamato frustrazione.
Forse parte del declino della nostra cultura è il rapporto che abbiamo con il grande Moloch, la nostra età individuale, l’età collettiva di una parte di mondo. Sia ben chiaro che quasi nulla, nell’odierna cultura imperante della castrazione e della fuga, ci aiuta a sconfiggere il gigante o a farcelo amico. Nella nostra modesta dimensione nazionale, dopo l’età di apprendistato, e superati quindi i limiti di età, la ricerca di un lavoro singhiozza, si fa tortuosa, ci si arrischia tra larghe buche disseminate su strade in forte pendenza. Non è facile neppure per i più giovani. E per chi studia, basta laurearsi prima dei ventotto anni, se no si entra di dovere nell’età degli sfigati, o almeno così ha sentenziato un ex rappresentante delle istituzioni.
Questi sono solo esempi, più affini al nostro presente storico, che potremmo fare sulla difficoltà di avere un rapporto più sano con un altro giro di boa.
Come sbarazzarci di questa intimità insalubre con i nostri anni, allora? Quale patto di non belligeranza bisogna firmare al tavolo con la nostra età?
Iniziamo dalla più basilare constatazione astronomica.
Cosa ci può suggerire il moto di rivoluzione terrestre? È simile ad alcuni giochi di società, dove bisogna girare e passare dal via più volte. Il punto di partenza non è quindi un nascere, e neppure uno snervante ripetersi, ma è un lento riformarsi: è un’entrata in, preziosa in qualsiasi criterio astronomico o nelle formule energetiche dell’astrologia. Non si esce mai del tutto, eppure nuovamente si entra; così nelle caselle del Monopoli, così nella propria casa, così di anno in anno, in quel legame possibile di nuove aspettative che ha culla in una parola facile, logora e lasciata spesso a languire: inizio.
In una delle ultime interviste rilasciate da Carl Gustav Jung, il padre della psicologia del profondo spiega come l’inconscio non consideri affatto la morte, comportandosi come se la vita dovesse continuare. Jung si rese conto che se gli anziani guardavano al giorno seguente con attesa, e anche a quello dopo, come se avessero ancora secoli davanti a sé, reagendo così davanti alla fine come fa l’inconscio, vivevano più a lungo e più serenamente. Jung sostiene che questo è il modo giusto di vivere, perché si segue la parte più profonda della nostra natura, e quindi in conformità con essa, non inconsciamente, ma facendo propri i suoi orizzonti, che in parte non sono confinati nello spazio e nel tempo. Questo modo di esistere non nega la morte – non è un suo affronto bensì un confrontarsi con l’infinito – ma protegge la vita dalla sua pietrificazione.
Come spesso accade, cambiare il tutto si compendia nel cambiare il proprio sguardo. Il rapporto con la nostra età non fa eccezione. Benché ci siano dei limiti che le regole impongono e che noi stessi ci siamo auto inflitti con il nostro fare concreto che atrofizza il reale, riscoprire in un altro anno che passa il moto di un pianeta intriso d’acqua e di terre emerse, che alla velocità di 108mila chilometri orari, dopo 365 giorni, ritorna al suo punto di partenza, ed entra in una nuova fase attorno alla stella che lo riscalda, spero vi possa dare una prospettiva diversa. E se a volte pensiamo che sia un ripetersi inutile o tedioso, un moto perenne e immutabile – quasi un’ingiustizia – ricordiamoci che è uno dei tasselli necessari che permette il perpetuarsi della vita.
25 Febbraio 2018
Loop: ‹lùup› s. ingl. (propr. «cappio»), usato in ital. al masch. – Nel linguaggio scientifico e tecnico, termine con cui si designano oggetti, strutture, programmi schematizzabili come linee chiuse o anelli; in elettrotecnica, l. di corrente, lo stesso che circuito chiuso. In informatica, successione di operazioni che vengono eseguite ripetutamente dal calcolatore nello stesso ordine, ogni volta con modifiche degli operandi, finché non sia soddisfatta qualche condizione prefissata.
L’altra sera ho parlato con un amico che si asterrà dal votare alle prossime elezioni del 4 marzo. A suo avviso, l’astensione è un inequivocabile segno di rottura e quindi un ficcante voto politico. Ormai da anni, lui non è più un uomo solo che grida nel deserto, ma una moltitudine che non si sente rappresentata, e spesso rimane in silenzio, al di fuori di quella cabina elettorale che ha assunto la forma di un feretro in vetrina, di una cassa vuota.
Il voto attivo o di astensione è un diritto all’interno di alcune regole; la regina, tra queste, è che nelle elezioni politiche non serve raggiungere alcun quorum per convalidarne il risultato. Qualcuno vincerà e qualcuno perderà, anche se andremo a votare io, mia moglie e i condomini della palazzina a tre piani in cui vivo. Astenersi dal voto non ha un effetto tangibile, se non velocizzare la spoliazione delle schede, le immancabili discussioni nei salotti televisivi, gli editoriali sui giornali ecc… ecc…
Che fare, dunque?
Qui entrano in gioco proposte e speculazioni. Se i cittadini italiani non votano più, se la sinistra e la destra sono uguali, se alla fine rubano tutti, se intanto a che serve, se non m’interessa, se io sono un anarchico individualista, se la democrazia è come il capitalismo: entrerà in crisi per poi collassare sotto la sua stessa struttura, è facile intuire come la disaffezione alla politica non sia data da una bruciante consapevolezza maturata nel corso degli ultimi vent’anni, ma dall’incessante ripetersi di un loop.
La logica conseguenza, quindi, sarebbe di inserire un contro loop nel sistema. Fenomeni come il Movimento 5 Stelle ne sono una variazione. Un groviglio di forze attive che spingono alcuni (soprattutto i giovani) a tornare al voto, sebbene l’astensione sia ancora troppo alta.
Dunque, che fare?
Solo alcuni spunti:
1) Potrebbe essere il quorum, con i piccoli paradossi e i problemi connessi a questa formula. Gli astensionisti potrebbero invalidare il voto perché non si è raggiunta la soglia minima richiesta per renderlo effettivo. Ma in questo caso, sebbene il risultato cambi rispetto al sistema elettivo in uso, la forza degli astensionisti sarebbe sì dirompente ma ancora passiva.
2) Alcuni consigliano d’inserire una casella all’interno della scheda elettorale, dove vi sia scritto: NESSUNO DEI PARTITI PRESENTI. Qui il dissenso muta in un’energia più attiva. Un’energia che si scomoda, si alza, va all’interno di una cabina e dice la sua. Chi propone questa seconda via, non le consegna alcun effetto concreto sulla validità del voto. C’è sempre qualcuno che vince, e qualcuno che va all’opposizione. Barrando quella casella, a fine scrutinio, sapremmo chi ha smesso di votare per contrasto e disgusto, e chi per semplice disinteresse.
3) E se invece si formasse un partito degli astenuti? Viene già chiamato così da più parti. Una forza politica di un tale peso, che potrebbe innescare un contro loop nel sistema politico, perché come unico punto di programma avrebbe il seguente: Se vinciamo, torniamo alle elezioni. Sarebbe una forza pienamente attiva, con voce certificata in capitolo. Un forza politica con i suoi rappresentanti.
Si potrebbe obiettare che i costi per imbastire le votazioni, l’instabilità che porterebbe i mercati a non investire in Italia, le apprensioni di Bruxelles, e le mille ragioni razionali (ma solo per il sistema che le perpetua) siano punti validi da non prendere sotto gamba. Vero.
Ma fanno parte del loop, lo rinvigoriscono: sono utili allo status quo.
In una catena ininterrotta di elezioni sfumate, quali potrebbero essere le conseguenze? Il rasoio di Occam suggerisce la costrizione di un nuovo governo tecnico o che i partiti, dovendo ritornare alla ribalta per sfoltire il numero degli astenuti, prometterebbero, a ogni tornata, una riduzione aggiuntiva delle tasse e manciate di nuovi benefici. Nulla di nuovo sotto le luci elettriche dell’emiciclo parlamentare. Da Christie’s, verrebbe allestita un’asta dove i quadri da vendere si chiamerebbero Fabio o Milena, pezzi pregiati di politico-indifferenti o politico-repellenti da riacquistare. Molti degli astenuti, sfiniti dalle continue tornate elettorali, cambierebbero casacca e voterebbero per arrestare il contro-loop da loro stessi creato. O potrebbe succedere che, ormai, accompagnato da un numero sempre più crescente di iscritti e votanti ormai assuefatti, il contro-loop crei una maggiore disarmonia; il partito s’ingrandirebbe a dismisura, sfiorando cifre mai viste nella storia repubblicana.
E arrivati a quel punto?
I vecchi partiti, divenuti ancora più piccoli e goffi, chiederanno al Mostro di sedersi attorno a un tavolo. In quell’occasione, cosa potrebbbe succedere? Il buon senso consiglia che il partito degli astenuti, dopo aver stremato la democrazia parlamentare, abbia delle idee da illustrare agli avversari. O alla presunta pericolosità di mandare a monte la vita sociale di un paese, senza proporre o chiedere nulla, le altre forze in campo inizieranno a chiedere: che cosa volete da noi?
Se la politica è l’espressione di un interesse comune e se gli astenuti esprimono ritrosia o indifferenza per come questo coinvolgimento viene rappresentato, l’unica risposta è un nuova rappresentazione. E per quanto possa sembrare anacronistico l’assunto che non esiste una vera rappresentazione politica che non si nutra del futuro, un futuro che s’incendi con una Visione, che se condivisa dalla moltitudine non può fare altro che diventare un presente collettivo, è tornato il momento di sentirsene di nuovo attratti. Ogni spinta e creazione parte dalla consapevolezza del domani. Gli astenuti sembra che smettano di chiedere futuro alla comunità con il loro mutismo elettorale. Ma è veramente così? Di rado. Anche i più disillusi nutrono il bisogno di re-illudersi.
In ogni regime dittatoriale, il voto è una farsa, si sa. Bisogna mandare il messaggio di appoggio al ras, ma la mano che guida la matita sulla scheda non appartiene a una libera e ragionata posizione: quella mano quindi non appartiene a un vero votante.
Il nuovo fascismo di oggi non è tanto la formazione di sacche di estrema destra sempre più folte, ma la pericolosa collisione che si cela dietro l’astensionismo. Se nei regimi, il non votante che vota lo fa spesso per paura di ritorsioni; nelle odierne democrazie occidentali, il non votante che non vota lo fa per disinteresse o voltastomaco. Questi due apparenti opposti sono simmetrici. Vi è solo una differenza: una dittatura può perpetuarsi, e preparare il terreno per la propria disfatta; una democrazia rappresentativa di non votanti può perpetuare la bugia che sia un regime indispensabile, e preparare il terreno per una nuova dittatura.
P.s.: Il partito degli astenuti votato dagli astenuti stessi è una contraddizione in termini, simile a un cervello che lavora quando il corpo riposa. Ma il nostro organo regio funziona così. Durante il sonno, il nostro cervello screma il sovrappiù, pulisce, riaggiusta, senza che ce ne accorgiamo. Gli astenuti dovrebbero incarnare questa funzionalità. Il loro lavorio dovrebbe formattare il troppo, l’inutile, il dannoso, in un sistema politico sazio e dormiente, che non se ne sta accorgendo. Tuttavia, perché gli effetti non solo siano visibili ma concreti, gli astenuti dovrebbero anche far spalancare gli occhi a quel corpo statico, perché si alzi, e scorga fuori dalla finestra le occasioni perse, e poco più in là, la distesa di tutte quelle ancora da cogliere.